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Rassegna Stampa |
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tuttobasket.net - venerdì 2 novembre 2007 at 09:23
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A cura di Massimo Roca
Smaltita l’euforia per la grande affermazione di Bologna, importante soprattutto dal punto di vista psicologico nonché storico (la Scandone non aveva mai espugnato il Pala Dozza), domenica l’Air proverà a sfatare il tabù del Pala Del Mauro contro una delle rivelazioni di questo pazzo campionato: la Pierrel Capo d’Orlando. Come ogni anno rinnovata per la quasi totalità, la compagine del presidente-sindaco Sindoni ha trovato nuovi mentori nella coppia Sacchetti-Vacirca rispettivamente coach e direttore sportivo dei biancoblu. Il complesso messo su dall’ex bandiera di Varese e dal giornalista-dirigente sta ripercorrendo i lusinghieri risultati che il duo ha già ottenuto in Legadue a Castelletto Ticino, potendo contare, analogamente all’esperienza piemontese, su risorse tutt’altro che illimitate. Dai “Draghi” di Castelletto è arrivato anche uno dei bomber di questo campionato, Drake Diener, drago di nome e di fatto, secondo marcatore e uomo dal minutaggio più elevato nell’intera lega. Al di là di ciò, è difficile parlare di Capo d’Orlando senza riferirsi al simbolo di questo nuovo corso: Gianmarco Pozzecco. Indipendentemente dall’indiscusso valore tecnico, il play goriziano è uno dei pochi veri personaggi che la pallacanestro italiana ha sfornato negli ultimi quindici anni: tra i pochi ad essere riconosciuto al di fuori del mondo del basket anche da chi pensa che la palla a spicchi sia solo una particolare varietà di arance. Con lui ci siamo intrattenuti parlando della sua nuova esperienza e del momento contingente vissuto dal campionato italiano, in vista della gara di domenica che lo vedrà di scena al pala Del Mauro.
A Capo d’Orlando sei un idolo. Sei stato coinvolto come testimonial in diverse iniziative extra cestistiche. Come ti trovi in Sicilia?
«Sto bene sotto tutti i punti di vista anche se, nel nostro lavoro, molto dipende dai risultati che si ottengono: si vive serenamente se dal punto di vista professionale le cose girano nel verso giusto. Ho trovato un coach che ha grande capacità relazionale, un gruppo giovane e pieno di entusiasmo».
Rispetto a quelle che sono le tue abitudini, al tuo modo di essere, ti trovi più a tuo agio in una piccola realtà di provincia come quella paladina o in una metropoli?
«Devo essere sincero, fino a qualche tempo fa se mi fosse arrivata una proposta da una cittadina, benché splendida, come Capo d’Orlando, non avrei accettato. Avevo altre esigenze e in provincia mi sarei sentito ingabbiato. Ora le cose sono un po’ cambiate e, sebbene non rinunci a divertirmi, ho un’altra visione delle cose e so anche accontentarmi. A Capo d’Orlando ho un buon gruppo di amici e ho legato molto con Orsini e poi non dimentichiamoci che non capita tutti i giorni avere la possibilità di giocare a basket in una splendida località di mare. Il binomio tra basket e bellezza di questo posto è difficile trovarlo in giro».
Molti tuoi colleghi italiani fino a qualche tempo fa snobbavano le cosiddette provinciali. Negli ultimi due-tre anni c’è stata un’inversione di tendenza, da cosa dipende? Forse dal budget ridotto delle cosiddette “grandi”?
«Si, è vero si sono ridotti gli importi degli ingaggi nelle piazze storiche del basket italiano ma credo che non sia soltanto questo il motivo di tale cambiamento. Probabilmente, ad un certo punto della carriera, c’è anche una voglia maggiore di tranquillità, l’esigenza di avere meno pressione. Riferendomi alla mia esperienza, penso a Varese dove c’è molto interesse e conseguentemente tante aspettative dalla squadra di basket, ma soprattutto a Bologna dove la pressione è sicuramente superiore che in qualsiasi altra piazza in Italia».
Cosa hai portato nella valigia dalla tua esperienza in Russia?
«Vivere a Mosca non è stato semplice, un altro mondo, totalmente diverso dal nostro. Ora comincio ad immedesimarmi, ad intendere quello che provano gli americani quando arrivano in Italia: i problemi con la lingua, le piccole difficoltà quotidiane, il desiderio di tornare a casa durante le festività. Ho allacciato un buon rapporto con il direttore sportivo del CSKA e, nonostante i dollari che circolano, ho potuto riscontrare un modo diverso di affrontare la competizione sportiva che è vissuta più profondamente e sinceramente che in Italia. Ci sono meno meschinità e invidie in giro. Se poi dovessi scegliere qualcosa che mi sarebbe piaciuto portare in Italia dico sicuramente le cheerleaders del CSKA».
Si è scritto molto del tuo “no” alla Virtus Bologna, cosa ti senti di aggiungere in proposito?
«Nulla in più di quanto ho già detto. Alla base di questa decisione ci sono stati una serie di motivi. Principalmente non me la sono sentita di passare sull’altra sponda dopo una carriera trascorsa indossando le canotte di Varese e Fortitudo, rivali storiche della Virtus. A quanto vedo non sono l’unico: qualche giorno fa un ragionamento simile l’ho ascoltato anche dal calciatore della Roma, Cassetti, che ha rifiutato il passaggio alla Lazio».
Come hai trovato il campionato italiano? Concordi con quanto dichiarato domenica sera da Carlton Myers: è un campionato più scadente rispetto agli anni d’oro della sua Fortitudo?
«Non ci voleva Carlton Myers per capire una cosa così lampante. Le cosiddette “grandi” sono più deboli che in passato. Non vedo questi grandi fenomeni in giro mentre ci sono mediamente più buoni giocatori, questo perché, se il livello delle grandi si è abbassato, contestualmente noto che le compagini di fascia medio-bassa sono in continua crescita. Del resto basta fare una considerazione numerica semplicissima. Rispetto al passato, l’NBA saccheggia l’Europa dei suoi pezzi migliori. Di quella pattuglia, sempre più nutrita di giocatori proveniente dal vecchio continente, almeno una quindicina avrebbero calcato un tempo i parquet italiani dando un altro spessore alle squadre di vertice».
E’ possibile sintetizzare la descrizione di questo campionato con l’affermazione “Biancaneve (Siena) e i 17 nani”? Oppure il titolo del Corriere della Sera ti sembra ingeneroso nei confronti delle cosiddette outsiders che la loro parte la stanno facendo e, in qualche caso, anche alla grande?
«Probabilmente quel titolo non è corretto perché ci sono formazioni come Teramo, Biella, Rieti, Avellino, Cantù che stanno dando dimostrazione che il campionato è tutt’altro che scontato».
Questo equilibrio è un fatto momentaneo o è destinato a durare sino alla fine?
«Durerà fino alla fine. Ci sono molte squadre competitive. Può darsi che qualcuna di quelle che oggi occupa posizioni inaspettatamente di vertice crollerà, ma l’equilibrio sostanzialmente sarà la costante di questo torneo».
Voi avete affrontato e battuto in trasferta sia Milano che Napoli , due delle squadre della cosiddetta prima fascia. Sono in ritardo di condizione oppure i valori in campo, soprattutto limitatamente ai quintetti base, sono così esigui che non sarà facile per le cosiddette “grandi” estrinsecare il loro blasone sul parquet?
«Un’analisi precisa su Milano e Napoli non sono in grado di farla perché non ho vissuto dal campo quelle due gare. Sono due squadre che hanno cambiato molto ed hanno bisogno di tempo. Chi partiva con i favori dei pronostici ed è attualmente attardato in classifica si riprenderà, ma non in modo repentino e penso che dovrà sudare per scalare la classifica».
Qualcuno dice che il livello non eccelso è imputabile soprattutto agli stranieri: non giocano per un sistema, né per una maglia, né per la voglia di crescere e migliorare se stessi ed il gruppo. Quasi tutti hanno contratti annuali e sperano così di fare la stagione della vita per avere poi un ingaggio superiore. Che ne pensi?
«In questo ragionamento non ci vedo niente di scandaloso. Faccio un esempio, io conosco Avellino e so dell’entusiasmo della gente, dell’interesse per il basket che è presente nella vostra città e la storia quasi decennale nella massima serie. Pertanto per me sarebbe un onore pensare di giocare ad Avellino considerando la città in quanto tale. Diverso il discorso per un americano che arriva in Italia per il quale una città vale l’altra e il cui unico obiettivo può essere quello economico o quello di lanciarsi ad alti livelli. Cerchiamo di non essere ipocriti: è un po’ quello che è capitato a me in Russia, quale particolare interesse mi avrebbe potuto mai suscitare la prospettiva di andare a giocare sui parquet siberiani piuttosto che a Vladivostock?»
Dopo lo stereotipo del play moderno alto, fisicamente dotato, si assiste ad un proliferare di play-tascabili: secondo te è una situazione contingente legata alle casse societarie asfittiche oppure una naturale evoluzione conseguente alla velocizzazione del gioco derivante dalla regola dei 24’’?
«Dal mio punto di vista, l’idea del play alto è un mito legato alla figura di Micheal Jordan. Il play per sua natura è piccolo e lo sarà sempre. Anche 6-7 anni fa, a parte qualche eccezione, non mi sembra che i play fossero dei giganti. Ricordo Maric, Gilmore, Edney, Penn».
Vedi un tuo erede tra le nuove leve?
«Può essere Poeta. Mi ha veramente impressionato: è velocissimo, legge bene le situazioni di gioco, possiede personalità, sfrontatezza, sicuramente ha tutte le carte in regola per essere al top».
Capo d’Orlando sta trovando in Diener una piacevole sorpresa e, con il tuo ritorno in squadra, anche Howell sembra essere quello dei tempi migliori vissuti tre stagioni fa proprio in Sicilia. Dove può arrivare la Pierrel dopo questo convincente inizio di stagione?
«E’ difficile dirlo, ci sono almeno 10 squadre sullo stesso livello per cui è praticamente impossibile fare pronostici».
Sacchetti, Pozzecco ed Howell: “little Varese” a Capo d’Orlando?
«E’ stato solo un caso che ci siamo ritrovati insieme. Ho un’ottima intesa tecnica con Rolando. Del coach ho già detto, è una persona preparata e con cui ho un buon feeling, anche perché, se così non fosse, non avrei molte chances di sopravvivere vista la sua mole…!»
Ad Avellino coach Boniciolli vive una situazione particolare: un rapporto con pochi “alti” e molti “bassi” con l’ambiente. Che ricordo hai di lui?
«Strano che ad Avellino ci sia questa situazione. Conosco sia Matteo che Avellino che so essere una piazza abbastanza tranquilla, dove si lavora con serenità. Posso dire che il coach aveva legato bene con tutto l’ambiente della Fortitudo dove ha lasciato un ottimo ricordo».
Avellino è stata “bestia nera” della “tua” Varese. Che giudizio dai di una squadra che quest’anno è partita con ambizioni diverse rispetto ad una semplice salvezza? A tuo avviso quali sono le potenzialità dei biancoverdi? Cosa ti è piaciuto di più e quali secondo te i difetti?
«Non mi addentro nell’analisi di eventuali difetti dei biancoverdi. Ho visto la gara contro la Fortitudo e ho potuto ammirare un grandissimo playmaker che è Marques Green. Detta i tempi non in maniera precisa ma in modo formidabile, sa selezionare i compagni da servire e, a dispetto dei centimetri si fa sentire anche in difesa. Complimenti a chi l’ha saputo scovare e portare ad Avellino. Ovviamente non c’è solo lui perché Alex Righetti, Nikola Radulovic e gli altri americani non sono gli ultimi arrivati, ma, ripeto, Green è sicuramente l’elemento imprescindibile. Se la memoria non m’inganna, credo che quest’anno la Scandone abbia la squadra più forte di sempre».
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Queste le agenzie di
Box Office Sicilia. |
Inoltre i biglietti in prevendita saranno disponibili a Capo
d'Orlando anche presso il Caffè del Corso e la Tabaccheria Valenti. |
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