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Rassegna Stampa |
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La Gazzetta del Sud - martedì 20 maggio 2008 at 17:11
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Nelle intenzioni, questa sarebbe stata l'intervista in cui strapparti un "forse" sulla possibilità di non ritirarti. Il problema è che dopo la festa di Avellino, nessuno avrà più il coraggio di chiedere a Gianmarco Pozzecco di continuare. Anche se il ct Carlo Recalcati ha dichiarato di volergli far giocare un'ultima partita in Nazionale. «Lo ringrazio... vedremo. È stata una bella ciliegina, anzi una ciliegiona. Avevo sempre sognato di finire la mia carriera con una "cosa" del genere, ma devo ammettere che è stato molto strano che fosse ad Avellino. Anche se quando ho giocato la prima volta con Varese ho fatto amicizia con i ragazzi della curva, poi alla Fortitudo mi misero fuori squadra proprio prima di Avellino... è comunque un "incrocio" della mia carriera». – Dal punto di vista del risultato e, forse, della location avresti sperato in qualcosa di diverso. «Volevo finire al "PalaFantozzi", quando abbiamo perso gara-2 ero molto dispiaciuto anche perché avrebbe trasmesso in diretta gara-4. Però devo dire che, per come me l'hanno fatta vivere i tifosi ad Avellino, il rimpianto che resta è piccolo: così è stata meno scontata, mi ha rafforzato l'impressione di essere il "giocatore di tutti" che era nata a Cantù. Lì, su un campo dove ero stato sempre odiato, mi sono reso conto che la cosa stava prendendo delle dimensioni notevoli. Sì, a Cantù ho capito che stava finendo bene». – Fisicamente, invece, non potevi fare di più: sei arrivato a fine stagione infortunato e al limite delle forze. Del resto, era dalla stagione 2000/01 a Varese che non avevi un minutaggio così alto: ed era sette anni fa. «Sì, ma arrivavo ugualmente stremato anche allora, perché prendevo palla e partivo sempre in contropiede. Quest'anno è stato diverso, ma i problemi fisici mi hanno condizionato davvero tanto. La cosa da ridere è che la gente che mi incontra in questi giorni non si spiega come mai, non giocando più, io zoppichi ancora!». – Avevi sempre detto di voler chiudere al massimo e l'hai fatto, per numeri, per impatto, per quello che hai significato per Capo d'Orlando. «Più che le cifre o l'impatto stesso, qui ho avuto la possibilità di tornare a giocare per divertirmi, come all'inizio della mia carriera. E questo si è rivelato il posto ideale; fossi andato alla Virtus, non sarebbe stato lo stesso anche se si tratta di una squadra prestigiosa. Quando sono andato in Russia l'ho fatto per guadagnare; ora sono, come dire?, orgoglioso che la gente sia orgogliosa che io abbia finito qui. Ho iniziato da "non-fenomeno" e ho finito in un posto da "non-fenomeno", però...». – ...Però facendo il fenomeno. «Grazie per averlo detto: non avevo il coraggio di finire la frase!». – Due anni fa, prima di firmare per il Khimki, eri stato già contattato da Capo d'Orlando. Era una possibilità reale o no? «Altrochè. Mi chiamò Pastori, quasi temendo che mi offendessi. Mi spiegò che il presidente Sindoni era "fissato" con me, presi l'offerta in considerazione ma non se ne fece nulla. Anche prima di andare alla Fortitudo l'Orlandina, che era in Legadue, mi aveva contattato; ma allora pensavo di dover giocare in Serie A. Pentito? Forse sì, anche se il fattore tempo ha una sua importanza». – Per il valore del giocatore, che riteniamo ovviamente assoluto, tu hai vinto pochino. «Eh...». – Però hai comunque conquistato lo scudetto della "stella" a Varese e un argento olimpico, hai conosciuto la notorietà mondiale con l'amichevole vinta sul Dream Team a Colonia. Nella tua classifica, a che posto metti l'annata alla Pierrel? «Se mi chiedessero "rinunceresti allo scudetto di Varese o a questa stagione?", risponderei che se la giocano. Sono veramente legato a questo posto: qui ho avuto emozioni forti, sicuramente più che alle Olimpiadi. È strano, sono stato qui solo un anno e sembra ne siano passati dieci per l'affetto che ho ricevuto. Mancava solo che Sindoni cambiasse il nome del paese in "Capoz" d'Orlando, gliel'ho anche chiesto dopo la vittoria sulla Fortitudo... Quando ho parlato di Capo d'Orlando con "Orso" pensavo esagerasse per convincermi, invece si teneva basso forse per paura che me la prendessi con lui qualora le cose non fossero andate bene». – Invece sono andate benino. Merito del gruppo, come hai voluto sottolineare in panchina ad Avellino appena i colleghi di Sky ti hanno messo un microfono davanti alla bocca. E già avevi paragonato i tuoi compagni a quelli dello scudetto varesino. «Meglio. Nettamente meglio. Ovviamente tutto è stato amplificato da com'è andata la stagione, ma è anche vero che senza Sacchetti e i miei compagni non sarei mai riuscito a farcela. Dopo la partita in cui abbiamo conquistato i playoff, nello spogliatoio ho voluto dire ai ragazzi: "Avete avuto la fortuna di vivere una stagione fantastica, sappiate che non vi capiterà più". Anche nell'anno di Varese, pur tra tanti amici, poteva comunque esserci qualche litigio: è normale, in un gruppo di 12-13 persone. Qui no. Penso a Adam Wojcik, una persona d'altri tempi, a Juan Fabi: non mi era mai accaduto di avere questo rapporto con il mio cambio, di scoprire la sua gioia nel vedermi giocare bene. Un nome su tutti? Ndoja per le cose che mi ha detto a fine partita ad Avellino, ma anche Bruttini, Wallace che è stato l'artefice di questa coesione di gruppo, Mejia che è venuto a salutarmi in lacrime...». – Ultimo nome: Meo Sacchetti. «Meo cerca di fare il burbero, ma non ci riesce mai. È facile ottenere rispetto incutendo paura, ma dura poco; lui invece lo ha fatto senza costringere la gente a temerlo, non ha mai usato il bastone – al massimo uno stuzzicadenti... – ma ha ottenuto rispetto in modo genuino e dando umanità. Non credo dipenda dal suo pedigree cestistico, è proprio la persona che è: con quell'aspetto burbero mi ricorda mio padre. Per capirci, il lunedì eravamo noi a pregarlo di raggiungerci in vineria, lui non voleva venire per lasciarci i nostri spazi. Sì, lui ha fatto la differenza per me, ma è stato importante il rapporto con tutti». – Eppure, il "giocattolo" ha rischiato di rompersi con la cessione di Diener e l'infortunio di Slay. Hai avuto paura? «Sì. È stata l'unica volta in cui mi sono fatto "sentire", dopo la sconfitta con Milano temevo le cose cambiassero. Fin lì c'eravamo meritati tutto, non volevo finisse. Anche lì, è stato merito di Enzo Sindoni e Gianmaria Vacirca, con la "magata" di Romel Beck. E dire che non sembrava nemmeno adatto al nostro gioco!». – Anche se non ci sarà l'addio che speravi al "PalaFantozzi", hai qualcosa da dire ai tifosi di Capo d'Orlando? «Vorrei salutarli e tranquillizzarli: ho letto sul forum la polemica sui cori non fatti nei miei confronti e non la condivido, l'affetto l'ho sentito comunque e resterà per sempre nel mio cuore. E sarà banale, ma voglio ringraziare Enzo. Lo faccio come primo cittadino, e con lui ringrazio fino all'ultimo cittadino di Capo d'Orlando». – Insomma, vacanze a Formentera o Capo d'Orlando? «Domanda sbagliata: io vivo qui. Da oggi questa è casa mia». Max Passalacqua
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