Maria Viglianti, dal Pci di Capo d'Orlando al convento. Il rito davanti al cardinale di Palermo. PALERMO – Prima i cortei contro Gladio, le lotte per bloccare il cemento fra i boschi dei Nebrodi, proteste ed occupazioni contro la mafia dell’acqua, per i posti di lavoro, i diritti negati, sempre sventolando la bandiera rossa del vecchio partito comunista e, via via, di Pds e Ds. Fino a diventare il primo sindaco donna di Castel di Lucio, un paesino arroccato in montagna, a metà strada fra Palermo e Messina. Poi, d’un colpo, con sorpresa di compagni e compagne, Maria Viglianti, vedova, nonna e madre di quattro figli anche loro storditi dall’annuncio s’è fatta suora, anzi suora di clausura. Il passo da quel municipio montanaro al monastero palermitano della Visitazione suor Giovanna Francesca, come adesso tutti chiamano con rispetto l’ex sindaco, risale a tre anni fa, ma solo adesso s’è completato il percorso con la cosiddetta «professione perpetua» pronunciata davanti al cardinale di Palermo. Un rito solenne celebrato fra amici e parenti arrivati nel convento vicino alla circonvallazione di Palermo con i quattro figli della neo-suora per una festa che comunque non ha annullato distanze e regole della clausura. «Continuiamo a vederla attraverso le sbarre e per fortuna non ci sono più le grate di una volta», spiega Tiziana, la figlia tornata da Londra dove ha lavorato per anni comunicando con lei solo per telefono o attraverso qualche lettera. Come Costanza, la figlia che lavora in segreteria alla scuola media di Tusa. Come Felice e Salvatore. Tutti fieri adesso di una madre «amata e adorata», indicata ad una sola voce: «Una persona dalla vita eccezionale che ha fatto una cosa eccezionale». Deve essere stato davvero pesante l’impegno di questa «pasionaria» che vent’anni fa le quote rosa se le conquistò tutte diventando segretario della federazione provinciale del Pci a Capo d’Orlando, guida di mille rivendicazioni, candidato al Senato e all’Assemblea regionale. «Ma sempre con una passione in cui incrociava i valori religiosi, tenendo come modello i principi di giustizia, di eguaglianza, la figura di Cristo», stando ai ricordi dell’attuale sindaco di Castel di Lucio, Antonino Alberti, un signore gentile oggi approdato al centro sinistra con la Margherita, ma allora all’opposizione contro il primo cittadino «comunista e femmina». Fu un pugno allo stomaco nell’entroterra della Sicilia dove non s’era mai vista in corsa per il municipio una professoressa di Lettere con quattro figli da allevare. E se le ricorda bene tante facce stupite la compagna che divise giorni e notti con Maria, come continua a chiamarla Francesca Scudiscio, oggi assessore ai Servizi sociali: «Con il marito, che poi morì di una brutta malattia, e i ragazzi viveva a Santo Stefano, sul mare, e soprattutto d’inverno, facendo tardi per le riunioni o per le lotte dei braccianti, spesso dormiva a casa mia. Non ci separavamo mai». Insieme partirono anche per il corteo anti-Gladio a Roma, col pullman della federazione, come evoca la Scudiscio: «Passo da casa e la trovo in cucina. Dovevamo mancare due notti e un giorno e lei aveva cucinato per una settimana lasciando pietanze pronte per tutti. Sfinita. Ma dopo dodici ore di autostrada la mattina era felice in piazza San Giovanni davanti a Veltroni e D’Alema». Prevale l’emozione e l’amica azzarda un moto di rabbia: «Mi manca da morire... Aveva degli impegni, degli obblighi. Prima verso la sua famiglia. E poi con noi che, avendo vent’anni meno, con lei avevamo scoperto la politica». Pensa lo stesso e giura che non è un rimprovero un altro «compagno» della sua covata, Alessandro Giordano, adesso capogruppo di maggioranza al Comune: «Inconsciamente so di non avere accettato la scelta. Nessun giudizio negativo, per carità. Anzi, mi chiedo come abbia fatto a dividersi per anni come un’eroina lavorando giorno e notte per i suoi figli, per il marito che aveva bisogno di mille cure, per gli studenti, correndo tra scuola, federazione e municipio, una riunione dietro l’altra...». E Giordano, che la ebbe come testimone alle sue nozze, ricorda la compagna-dirigente di allora con tenerezza: «Alle riunioni la sera vedevamo che a volte si appisolava, esausta, e chiudeva gli occhi. Sorridevamo. Ammirati per la dedizione». Chissà, forse, suor Giovanna Francesca ci scherzerebbe su, ma quel mondo per lei non c’è più.
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