Di fronte al liceo frequentato da mia figlia hanno eretto La famiglia, «un tributo a coloro che hanno innalzato una zona povera ed emarginata alla prosperità dello stato attuale». I personaggi del quadretto domestico sono congiunti a tutti gli effetti: blocchi d’acciaio anodizzato tenuti insieme da legacci di ferro. L’opera è firmata da uno scultore indigeno epperò «di fama internazionale, che ha operato a Chicago fin dalla metà degli Anni Sessanta». Si vede.
Un formidabile incentivo a questo declino del senso estetico viene dall’influenza rotoria, morbo tutto italiano che ha contagiato i sindaci e che ho già avuto modo di descrivere nel Dizionario del buon senso. Ovunque fiorisca una rotonda, quivi s’impone indifferibile la necessità d’installare nel bel mezzo un monumento. A Grumello del Monte (Bergamo) è una botte sovrastata nientemeno che da un tetto. A San Giovanni Lupatoto (Verona), il paese di Giovanni Rana, è un lupo della steppa siberiana in versione lapidea. Magari sarebbe risultato più accettabile un tortellino.
Gli anni del dopoguerra videro un fiorire, fin nelle più remote contrade, di monumenti ai caduti. Da mettersi le mani nei capelli, quanto a fascino: obici, ali d’aereo, elmetti, reticolati, roseti in ferro battuto, aquile, lumini, perimetri presidiati da bombe di mortaio che sostengono pesanti catene. Ma almeno denotavano un lodevole intento commemorativo. A quali criteri celebrativi s’ispirerà invece il monumento al gabbiano Jonathan Livingston lungo la passeggiata del molo sud di San Benedetto del Tronto, ribattezzata per l’occasione (non sto scherzando) «The Jonathan’s way»? E il monumento al cane da tartufo di Sant’Angelo in Vado con dedica «I tartufai all’inseparabile compagno di cerca e di cammino»? E il monumento alla motocicletta di San Giovanni in Galilea, che non trovasi in Terra Santa bensì in Comune di Borghi, provincia di Forlì-Cesena? Be’, pare che almeno questo una finalità ce l’abbia, nelle intenzioni della ceramista che lo ha eseguito: «L’opera rappresenta l’armonia e la tecnologia che l’uomo applica nel realizzare la moto, partendo dalla manipolazione e trasformazione delle materie prime fornitegli in natura. Ciò, rappresentato dalla base, prosegue in una strada in salita verso nuovi albori e senza fine, come la ricerca umana. Su questa via si modella la parte che più ci trasmette l’idea di una moto (ruote, manubrio, sella), quale mezzo plurifunzionale a disposizione dell’uomo». Espressivo. Poi non lamentiamoci se sul lungomare Andrea Doria di Capo d’Orlando si sentono in dovere di rispondere con Il ciclista e la Sicilia, «scultura con la Sicilia in marmo e il ciclista in ferro, la cui testa è una sfera (il mondo)», innalzata per ricordare l’arrivo dei Mondiali dilettanti uomini e professionisti donne nel 1994.
di Stefano Lorenzetto - sabato 26 maggio 2007 |